Game Boy Micro: il Minimalismo di Nintendo
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Game Boy è uno dei marchi più famosi della storia dei videogiochi: fra le varie revisioni dell’originale, il Color ed i diversi modelli di Advance sono stati venduti oltre 194 milioni di pezzi! Il Game Boy nasce nel 1989 da un’idea di Gunpei Yokoi come successore del Game & Watch: il pubblico di riferimento è così di età un po’ più bassa rispetto a quello delle console casalinghe Nintendo e d’altra parte le console portatili si prestano ad esperienze più semplici.
Quando si è bambini non si fa più di tanto caso all’estetica ed in effetti, grosso e pesante, il primo modello del Game Boy non era davvero bello a vedersi. La successiva versione Pocket riduce le dimensioni, ma ancora si tratta di un oggetto dal design piuttosto “rozzo”. Con l’uscita del Game Boy Advance il design è modificato, forse per marketing (si vuole sottolineare che è davvero una nuova console), ma certo il Game Boy non è ancora un oggetto bello a vedersi.
Nintendo ha iniziato a prestare attenzione al design del Game Boy solo con il modello micro, uscito in sordina nella seconda metà del 2005, fra l’altro dopo il DS. Il Game Boy micro è piuttosto interessante, perché tenta di unire la tradizione del marchio Game Boy, indiscutibilmente legato al mondo dei videogiochi, con un design stiloso, mirando quindi ad un pubblico più adulto, seguendo la linea già introdotta dal modello SP del GBA che aveva rinunciato al design giocattoloso e si proponeva con pubblicità decisamente non indirizzate al pubblico dei bambini. Ma perché parlare del micro piuttosto che del Wii o del DS Lite, console certo più diffuse dell’ultimo, misconosciuto modello del Game Boy? Il motivo è semplice: il Game Boy micro ancora si proclama, fieramente, console. Ha un design molto più curato di tutte le altre console, ma è ancora una console, è fiero di esserlo, ha come scopo primario offrire videogiochi. Il Wii ed il DS Lite si sono proposti al grande pubblico non come console per videogiochi tradizionali, ma come altro: come palestra o come versione deluxe della Settimana Enigmistica, ad esempio. Attenzione, non stiamo affermando che il Wii non è stata una console (sarebbe follia!), ma il grande pubblico non l’ha acquistata né percepita come tale. Wii e DS Lite si sono proposti come oggetti di uso quotidiano non (necessariamente) ludico, con un design molto vicino ai prodotti Apple. Il Game Boy micro questo non l’ha fatto, né poteva farlo: Game Boy, come marchio, è indiscutibilmente legato ai videogiochi, e solo ai videogiochi (è uno dei motivi per cui il DS non è stato chiamato Game Boy DS).
Uno, nessuno e centomila piccoli Game Boy
Un problema legato alla trattazione del design del Game Boy micro è l’inesistenza di un singolo design. In modo piuttosto originale Nintendo ha progettato il micro permettendo la sostituzione della cover superiore, idea ripresa un decennio dopo con il New 3DS. Il motivo è semplice: gli oggetti portatili, come i Game Boy, passano con noi la maggior parte della giornata e li sentiamo “nostri” in maniera molto, molto intima. Il pubblico adulto è attento all’estetica, ma ogni persona ha un’idea di “bello” leggermente diversa: due persone possono condividere lo stesso modello-base di camicia, ma preferire diverse combinazioni di colori.
E’ tuttavia da notare come i modelli base del Game Boy micro prediligano un’estetica monocromatica, con console totalmente nere o grigie: la stessa, in effetti, dei prodotti Apple e delle successive console Nintendo. Vi è in ciò un certo gusto per il minimalismo, presente anche nei pulsanti: A e B diventano a e b, in minuscolo, Start e Select sono posti sotto le console, quasi a nasconderli. Interessante come l’elemento nascosto diventi di primo piano quando accendiamo il Game Boy: i due tasti si illuminano, acquisendo così anche la funzionale di led.
Discorso ancora più complesso per L e R. Benché la cover frontale del Game Boy micro sia rimovibile, lo stesso non è valido per il resto delle console, destinata così a mantenere il colore di default. In altre parole posso comprare un Game Boy micro grigio e sostituire la cover con una nera, ma il resto della console rimarrà grigia. La cover ha però un design particolare, con due “onde” ai margini superiori ed inferiori, che fanno risaltare il resto della console ed il suo colore: si viene così a creare un contrasto fra il colore della cover da noi scelta ed il colore della console. L e R sono così il meno sporgenti possibile, per evitare un ulteriore contrasto.
Il senso della vite
I prodotti Apple e Nintendo (dal DS Lite) tendono ad un design minimalista compatto: teniamo in mano, di fatto, dei perfetti parallelepipedi (per quanto con gli angoli smussati), dove quasi è difficile distinguere i vari elementi costituitivi (Nintendo è arrivata ad includere nel DS Lite un “tappo” per lo slot GBA, assente nel grezzo primo DS). Il minimalismo del Game Boy micro è invece diverso, con i vari elementi che tendono piuttosto ad organizzarsi armonicamente, come abbiamo visto: Start e Select si notano all’accensione, L e R sono quasi invisibili alla vista ma non al tatto, la cover lascia intravedere il resto della console. In questo contesto si inseriscono le viti presenti ai bordi della console: un elemento apparentemente antiestetico, presente per permettere la rimozione della cover di cui abbiamo parlato. Non stonano tuttavia nell’economia compressiva: sono un ulteriore segno di demarcazione fra cover e console. Al ché dobbiamo chiederci: perché il Game Boy micro con così tanta attenzione vuole mettere in mostra le sue varie parti? La risposta è in incipit: laddove le tarde console Nintendo ed i prodotti Apple sono rivolti ad un pubblico vastissimo, il Game Boy micro ancora punta ai soli aficionados, a delle persone sì attente all’estetica ma appassionate di videogiochi che quasi con una certa gioia osservano quel piccolo capolavoro di microingegneria. In parole povere, il minimalismo del micro è un minimalismo nerd.
WELCOME TO THE WORLD OF MOTHER 3
In quanto semplice restyling del Game Boy Advance, il micro non ha avuto alcun gioco esclusivo. Tuttavia in Giappone alcuni giochi sono stati pubblicizzati assieme alla piccola console portatile: MOTHER 3, in particolare, è stato venduto in edizione limitata in bundle con uno speciale micro. Ed è un micro davvero brutto!
Un rosso acido è il colore dominante, ma vicino ai tasti abbiamo un rosso più tenue ed un grigio. L’impressione è che il rosso acido sia stato “grattato via” per lasciar posto al rosso tenue che, evidentemente, aveva coperto, ma nell’operazione anche parte del rosso tenue è stata rimossa: da qui le aree grigie. E’ comunque qualcosa di esteticamente sgradevole. E’ innaturale una console del genere. E’ uncanny. Ma è questa, del resto, una delle tematiche di MOTHER 3: la contrapposizione fra naturale ed artificioso, la progressiva perdita di innocenza delle Nowhere Island con l’arrivo della tecnologia. Una tematica presente già nel logo del gioco (un po’ in metallo, un po’ in legno) che in questa edizione limitata del micro si palesa al giocatore, proprio violando l’estetica minimalista dei modelli “regolari” della console.
MOTHER 3 è comunque fedele al minimalismo nerd del Game Boy micro nella sua estetica: ci troviamo di fronte un vero e proprio capolavoro di pixel art. Il titolo di questo paragrafo è lo slogan del gioco, ed in effetti quello di MOTHER 3 è un piccolo grande mondo popolato da personaggi con una loro storia, una loro personalità, i loro drammi. Dei personaggi realizzati con semplici pixel-quadratini ed una limitata gamma di colori, ma incredibilmente caratterizzati sin dal design. Molto più di quanto (non) avrebbero permesso i poligoni su Nintendo 64.
La pixel art caratterizza anche Calciobit, un simpatico manageriale calcistico di cui è uscito da poco il sequel sullo shop del 3DS come Nintendo Pocket Football Club.
This is the bit generation!
Altri giochi realizzati per il Game Boy micro sono rappresentati dalla serie bit Generations: sette titoli editi in Giappone nel 2006 con gameplay, grafica e sonoro estremamente semplici (tra l'altro dotati di una confezione diversa da quella degli altri giochi GBA, molto minimalista: quasi a significare che questi sono i giochi "propri" del micro). A differenza di MOTHER 3 e Calciobit non si fa uso di pixel art: si tende a riprodurre forme semplici o astratte in maniera estremamente minimale, ma senza fare ricorso ai pixel. Così in Boundish abbiamo una versione ultrasemplicistica di giochi come tennis (con una chiara strizzatina d’occhio a Pong, alle origini del videogioco), basket o hockey: fin quanto possiamo semplificare senza far perdere a questi giochi la loro identità? Dialhex e Coloris sono invece varianti di Tetris, basati l’uno su una griglia esagonale, l’altro sulla possibilità di cambiare colore ai vari quadratini. Vagamente tetrisiano è anche Digidrive, dove il gameplay basico del gioco russo viene reinterpretato ambientandolo nell’incrocio di un’autostrada: compito del giocatore è “smistare” le macchine (rappresentate da dei triangolini) a seconda del colore. Forse un po’ più evolute di gameplay sono rappresentate dal resto della serie: Dotstream è una sorta di versione bidimensionale di F-Zero, dove le diverse auto sono rappresentate da puntini colorati. Essi lasciano dietro di loro una scia colorata: se avviciniamo il nostro puntino a queste guadagniamo velocità, perdendo però il totale controllo del puntino. E’ un gameplay semplice ed immediato, ma piuttosto coinvolgente, che si fonde con l’estetica unica del titolo: è piuttosto affascinante osservare le varie linee colorate intersecarsi su uno sfondo nero.
In Orbient impersoniamo invece un piccolo pianeta: l’obiettivo è “inglobare” i satelliti di altri pianeti facendo diventare il nostro più grande, per poi iniziare a far orbitare pianetini-satelliti attorno a noi e, infine, formare un piccolo sistema solare. Pianeti che nascono, vivono e muoiono, inglobati da altri più grandi: Orbient è la storia dell’universo, rappresentata da semplici cerchi colorati.
Soundvoyager, infine, rappresenta un caso strano nel mondo videoludico… non essendo un videogioco, ma un audiogioco. Compito del giocatore è allontanare o avvicinare un pallino alla luogo da cui provengono dei suoni. Lo schermo fornisce delle informazioni, ma è assolutamente possibile (e consigliato) giocare ad occhi chiusi, per un’esperienza assolutamente unica.
Gli ultimi tre giochi di cui abbiamo parlato sono assolutamente dei piccoli capolavori che tutti dovrebbero giocare ed una sorta di “manifesto” del particolare minimalismo nerd di cui il Game Boy micro è portatore: è possibile creare delle esperienze videoludiche coinvolgenti utilizzando una manciata di tasti, una grafica semplicissima basata su elementari forme geometriche ed un sonoro evocativo.
Sulla falsariga di Soundvoyager si muove Rhythm Tengoku: il team di WarioWare ha dato vita a questa simpatica collezione di minigiochi interamente basati sul ritmo e giocabili ad occhi chiusi.
Less is more, ora e sempre
Dopo il Game Boy micro Nintendo ha continuato a porre una certa attenzione al design delle sue console ma, come già detto, prendendo a modello Apple. La pixel art ha lasciato il posto ad interfacce asettiche e semplici, le particolari declinazioni di “videogioco” proposte dalla bit Generation sono state sostituite da non-videogiochi. Questa fase creativa di Nintendo, durata circa un anno (2005-2006, come del resto il micro), ha avuto tuttavia le sue conseguenze: la troviamo ancora in qualche gioco sparso, come il simpatico Electroplankton per DS o il bellissimo puzzle-game MaBoShi per WiiWare. La pixel art di MOTHER 3 la ritroviamo in Kappa’s Trails per DSiWare e in London Life, simpatico minigioco presente nelle versioni non europee del quarto Layton. Rhythm Tengoku e Calciobit hanno invece avuto sequel e la bit Generations è continuata su WiiWare e DSiWare con il nome di Art Style.
Sul lato hardware Wii U e 3DS sono in un certo senso figli del micro, forse perché, a differenza dei loro precedessori, le console Nintendo dell'ottava generazione mirano ad un pubblico più tradizionale. Così, ad esempio, non ritroviamo nel primo modello del 3DS la compattezza del DS Lite. E' sufficiente osservare di lato la console chiusa: laddove il DS Lite era un solido blocco compatto, il 3DS accentua i tre "strati" che lo compongono (la base, la cover, lo schermo superiore), in modo non dissimile dal micro. Il New 3DS arriva poi a strizzare l'occhio al glorioso passato Nintendo con i tasti colorati esattamente come il Super Famicom. Al tempo stesso si crea così sia una sorta di "simbologia" di questo minimalismo nerd, sia un file rouge che partendo dagli albori del videogiochi arriva fino al presente.
Mentre le altre software house hanno intrapreso una esasperata ricerca del realismo, Nintendo ha così indissolubilmente legato l’arte minimalista al medium videludico.
Quando si è bambini non si fa più di tanto caso all’estetica ed in effetti, grosso e pesante, il primo modello del Game Boy non era davvero bello a vedersi. La successiva versione Pocket riduce le dimensioni, ma ancora si tratta di un oggetto dal design piuttosto “rozzo”. Con l’uscita del Game Boy Advance il design è modificato, forse per marketing (si vuole sottolineare che è davvero una nuova console), ma certo il Game Boy non è ancora un oggetto bello a vedersi.
Nintendo ha iniziato a prestare attenzione al design del Game Boy solo con il modello micro, uscito in sordina nella seconda metà del 2005, fra l’altro dopo il DS. Il Game Boy micro è piuttosto interessante, perché tenta di unire la tradizione del marchio Game Boy, indiscutibilmente legato al mondo dei videogiochi, con un design stiloso, mirando quindi ad un pubblico più adulto, seguendo la linea già introdotta dal modello SP del GBA che aveva rinunciato al design giocattoloso e si proponeva con pubblicità decisamente non indirizzate al pubblico dei bambini. Ma perché parlare del micro piuttosto che del Wii o del DS Lite, console certo più diffuse dell’ultimo, misconosciuto modello del Game Boy? Il motivo è semplice: il Game Boy micro ancora si proclama, fieramente, console. Ha un design molto più curato di tutte le altre console, ma è ancora una console, è fiero di esserlo, ha come scopo primario offrire videogiochi. Il Wii ed il DS Lite si sono proposti al grande pubblico non come console per videogiochi tradizionali, ma come altro: come palestra o come versione deluxe della Settimana Enigmistica, ad esempio. Attenzione, non stiamo affermando che il Wii non è stata una console (sarebbe follia!), ma il grande pubblico non l’ha acquistata né percepita come tale. Wii e DS Lite si sono proposti come oggetti di uso quotidiano non (necessariamente) ludico, con un design molto vicino ai prodotti Apple. Il Game Boy micro questo non l’ha fatto, né poteva farlo: Game Boy, come marchio, è indiscutibilmente legato ai videogiochi, e solo ai videogiochi (è uno dei motivi per cui il DS non è stato chiamato Game Boy DS).
Uno, nessuno e centomila piccoli Game Boy
Un problema legato alla trattazione del design del Game Boy micro è l’inesistenza di un singolo design. In modo piuttosto originale Nintendo ha progettato il micro permettendo la sostituzione della cover superiore, idea ripresa un decennio dopo con il New 3DS. Il motivo è semplice: gli oggetti portatili, come i Game Boy, passano con noi la maggior parte della giornata e li sentiamo “nostri” in maniera molto, molto intima. Il pubblico adulto è attento all’estetica, ma ogni persona ha un’idea di “bello” leggermente diversa: due persone possono condividere lo stesso modello-base di camicia, ma preferire diverse combinazioni di colori.
E’ tuttavia da notare come i modelli base del Game Boy micro prediligano un’estetica monocromatica, con console totalmente nere o grigie: la stessa, in effetti, dei prodotti Apple e delle successive console Nintendo. Vi è in ciò un certo gusto per il minimalismo, presente anche nei pulsanti: A e B diventano a e b, in minuscolo, Start e Select sono posti sotto le console, quasi a nasconderli. Interessante come l’elemento nascosto diventi di primo piano quando accendiamo il Game Boy: i due tasti si illuminano, acquisendo così anche la funzionale di led.
Discorso ancora più complesso per L e R. Benché la cover frontale del Game Boy micro sia rimovibile, lo stesso non è valido per il resto delle console, destinata così a mantenere il colore di default. In altre parole posso comprare un Game Boy micro grigio e sostituire la cover con una nera, ma il resto della console rimarrà grigia. La cover ha però un design particolare, con due “onde” ai margini superiori ed inferiori, che fanno risaltare il resto della console ed il suo colore: si viene così a creare un contrasto fra il colore della cover da noi scelta ed il colore della console. L e R sono così il meno sporgenti possibile, per evitare un ulteriore contrasto.
Il senso della vite
I prodotti Apple e Nintendo (dal DS Lite) tendono ad un design minimalista compatto: teniamo in mano, di fatto, dei perfetti parallelepipedi (per quanto con gli angoli smussati), dove quasi è difficile distinguere i vari elementi costituitivi (Nintendo è arrivata ad includere nel DS Lite un “tappo” per lo slot GBA, assente nel grezzo primo DS). Il minimalismo del Game Boy micro è invece diverso, con i vari elementi che tendono piuttosto ad organizzarsi armonicamente, come abbiamo visto: Start e Select si notano all’accensione, L e R sono quasi invisibili alla vista ma non al tatto, la cover lascia intravedere il resto della console. In questo contesto si inseriscono le viti presenti ai bordi della console: un elemento apparentemente antiestetico, presente per permettere la rimozione della cover di cui abbiamo parlato. Non stonano tuttavia nell’economia compressiva: sono un ulteriore segno di demarcazione fra cover e console. Al ché dobbiamo chiederci: perché il Game Boy micro con così tanta attenzione vuole mettere in mostra le sue varie parti? La risposta è in incipit: laddove le tarde console Nintendo ed i prodotti Apple sono rivolti ad un pubblico vastissimo, il Game Boy micro ancora punta ai soli aficionados, a delle persone sì attente all’estetica ma appassionate di videogiochi che quasi con una certa gioia osservano quel piccolo capolavoro di microingegneria. In parole povere, il minimalismo del micro è un minimalismo nerd.
WELCOME TO THE WORLD OF MOTHER 3
In quanto semplice restyling del Game Boy Advance, il micro non ha avuto alcun gioco esclusivo. Tuttavia in Giappone alcuni giochi sono stati pubblicizzati assieme alla piccola console portatile: MOTHER 3, in particolare, è stato venduto in edizione limitata in bundle con uno speciale micro. Ed è un micro davvero brutto!
Un rosso acido è il colore dominante, ma vicino ai tasti abbiamo un rosso più tenue ed un grigio. L’impressione è che il rosso acido sia stato “grattato via” per lasciar posto al rosso tenue che, evidentemente, aveva coperto, ma nell’operazione anche parte del rosso tenue è stata rimossa: da qui le aree grigie. E’ comunque qualcosa di esteticamente sgradevole. E’ innaturale una console del genere. E’ uncanny. Ma è questa, del resto, una delle tematiche di MOTHER 3: la contrapposizione fra naturale ed artificioso, la progressiva perdita di innocenza delle Nowhere Island con l’arrivo della tecnologia. Una tematica presente già nel logo del gioco (un po’ in metallo, un po’ in legno) che in questa edizione limitata del micro si palesa al giocatore, proprio violando l’estetica minimalista dei modelli “regolari” della console.
MOTHER 3 è comunque fedele al minimalismo nerd del Game Boy micro nella sua estetica: ci troviamo di fronte un vero e proprio capolavoro di pixel art. Il titolo di questo paragrafo è lo slogan del gioco, ed in effetti quello di MOTHER 3 è un piccolo grande mondo popolato da personaggi con una loro storia, una loro personalità, i loro drammi. Dei personaggi realizzati con semplici pixel-quadratini ed una limitata gamma di colori, ma incredibilmente caratterizzati sin dal design. Molto più di quanto (non) avrebbero permesso i poligoni su Nintendo 64.
La pixel art caratterizza anche Calciobit, un simpatico manageriale calcistico di cui è uscito da poco il sequel sullo shop del 3DS come Nintendo Pocket Football Club.
This is the bit generation!
Altri giochi realizzati per il Game Boy micro sono rappresentati dalla serie bit Generations: sette titoli editi in Giappone nel 2006 con gameplay, grafica e sonoro estremamente semplici (tra l'altro dotati di una confezione diversa da quella degli altri giochi GBA, molto minimalista: quasi a significare che questi sono i giochi "propri" del micro). A differenza di MOTHER 3 e Calciobit non si fa uso di pixel art: si tende a riprodurre forme semplici o astratte in maniera estremamente minimale, ma senza fare ricorso ai pixel. Così in Boundish abbiamo una versione ultrasemplicistica di giochi come tennis (con una chiara strizzatina d’occhio a Pong, alle origini del videogioco), basket o hockey: fin quanto possiamo semplificare senza far perdere a questi giochi la loro identità? Dialhex e Coloris sono invece varianti di Tetris, basati l’uno su una griglia esagonale, l’altro sulla possibilità di cambiare colore ai vari quadratini. Vagamente tetrisiano è anche Digidrive, dove il gameplay basico del gioco russo viene reinterpretato ambientandolo nell’incrocio di un’autostrada: compito del giocatore è “smistare” le macchine (rappresentate da dei triangolini) a seconda del colore. Forse un po’ più evolute di gameplay sono rappresentate dal resto della serie: Dotstream è una sorta di versione bidimensionale di F-Zero, dove le diverse auto sono rappresentate da puntini colorati. Essi lasciano dietro di loro una scia colorata: se avviciniamo il nostro puntino a queste guadagniamo velocità, perdendo però il totale controllo del puntino. E’ un gameplay semplice ed immediato, ma piuttosto coinvolgente, che si fonde con l’estetica unica del titolo: è piuttosto affascinante osservare le varie linee colorate intersecarsi su uno sfondo nero.
In Orbient impersoniamo invece un piccolo pianeta: l’obiettivo è “inglobare” i satelliti di altri pianeti facendo diventare il nostro più grande, per poi iniziare a far orbitare pianetini-satelliti attorno a noi e, infine, formare un piccolo sistema solare. Pianeti che nascono, vivono e muoiono, inglobati da altri più grandi: Orbient è la storia dell’universo, rappresentata da semplici cerchi colorati.
Soundvoyager, infine, rappresenta un caso strano nel mondo videoludico… non essendo un videogioco, ma un audiogioco. Compito del giocatore è allontanare o avvicinare un pallino alla luogo da cui provengono dei suoni. Lo schermo fornisce delle informazioni, ma è assolutamente possibile (e consigliato) giocare ad occhi chiusi, per un’esperienza assolutamente unica.
Gli ultimi tre giochi di cui abbiamo parlato sono assolutamente dei piccoli capolavori che tutti dovrebbero giocare ed una sorta di “manifesto” del particolare minimalismo nerd di cui il Game Boy micro è portatore: è possibile creare delle esperienze videoludiche coinvolgenti utilizzando una manciata di tasti, una grafica semplicissima basata su elementari forme geometriche ed un sonoro evocativo.
Sulla falsariga di Soundvoyager si muove Rhythm Tengoku: il team di WarioWare ha dato vita a questa simpatica collezione di minigiochi interamente basati sul ritmo e giocabili ad occhi chiusi.
Less is more, ora e sempre
Dopo il Game Boy micro Nintendo ha continuato a porre una certa attenzione al design delle sue console ma, come già detto, prendendo a modello Apple. La pixel art ha lasciato il posto ad interfacce asettiche e semplici, le particolari declinazioni di “videogioco” proposte dalla bit Generation sono state sostituite da non-videogiochi. Questa fase creativa di Nintendo, durata circa un anno (2005-2006, come del resto il micro), ha avuto tuttavia le sue conseguenze: la troviamo ancora in qualche gioco sparso, come il simpatico Electroplankton per DS o il bellissimo puzzle-game MaBoShi per WiiWare. La pixel art di MOTHER 3 la ritroviamo in Kappa’s Trails per DSiWare e in London Life, simpatico minigioco presente nelle versioni non europee del quarto Layton. Rhythm Tengoku e Calciobit hanno invece avuto sequel e la bit Generations è continuata su WiiWare e DSiWare con il nome di Art Style.
Sul lato hardware Wii U e 3DS sono in un certo senso figli del micro, forse perché, a differenza dei loro precedessori, le console Nintendo dell'ottava generazione mirano ad un pubblico più tradizionale. Così, ad esempio, non ritroviamo nel primo modello del 3DS la compattezza del DS Lite. E' sufficiente osservare di lato la console chiusa: laddove il DS Lite era un solido blocco compatto, il 3DS accentua i tre "strati" che lo compongono (la base, la cover, lo schermo superiore), in modo non dissimile dal micro. Il New 3DS arriva poi a strizzare l'occhio al glorioso passato Nintendo con i tasti colorati esattamente come il Super Famicom. Al tempo stesso si crea così sia una sorta di "simbologia" di questo minimalismo nerd, sia un file rouge che partendo dagli albori del videogiochi arriva fino al presente.
Mentre le altre software house hanno intrapreso una esasperata ricerca del realismo, Nintendo ha così indissolubilmente legato l’arte minimalista al medium videludico.
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